sabato 31 marzo 2012

Hippy tech

All’inizio tecnologi e hippy non si interfacciarono bene. Molti esponenti della controcultura consideravano i computer sinistri e orwelliani, la provincia del Pentagono e della Struttura del Potere. Nel Mito della macchina, lo storico Lewis Mumford metteva in guardia dai computer, i quali succhiavano all’uomo la sua libertà e distruggevano «i valori che esaltano la vita». Un’avvertenza sulle schede perforate dell’epoca, «non piegare, bucare o mutilare», diventò lo slogan ironico della sinistra antimilitarista.

Nei primi anni Settanta, però, l’atteggiamento mentale a poco a poco cambiò. «L’elaborazione al computer, che prima era accusata di essere lo strumento del controllo burocratico, cominciò a essere considerata un simbolo di espressione individuale e di liberazione» ha scritto John Markoff quando ha analizzato il convergere della controcultura con l’industria informatica in What the Dormouse Said. Tale ethos fu espresso liricamente da Richard Brautigan nella poesia del 1967 All Watched Over By Machines of Loving Grace (Tutti sorvegliati da macchine di leggiadra grazia) e la fusione «cyberdelica» ricevette il suo viatico ufficiale quando Timothy Leary, dopo aver dichiarato che i personal computer erano diventati la nuova LSD, rivide il suo famoso mantra («Turn on, tune in, drop out»: «Accendi la mente, sintonizzati con l’universo, esci dall’hic et nunc allargando la coscienza») proclamando: «Accenditi, avviati, connettiti».

Il musicista Bono Vox, divenuto in seguito amico di Jobs, ha discusso spesso con lui del motivo per cui gli esponenti della controcultura tutta rock-droga-contestazione della Bay Area abbiano infine contribuito a creare l’industria informatica. «Le persone che hanno inventato il XXI secolo erano hippy della West Coast che fumavano erba e andavano in giro con i sandali come Steve perché vedevano le cose in maniera diversa» dice Bono. «I sistemi gerarchici della East Coast, di Inghilterra, Germania e Giappone non incoraggiavano quel modo di pensare diverso. Gli anni Sessanta hanno prodotto una mentalità anarchica che era molto adatta a immaginare un mondo ancora di là da venire.»



Una persona che incoraggiò la controcultura californiana a fare causa comune con gli hacker fu Stewart Brand. Ironico visionario che ha sfornato per molti decenni idee e divertimento, Brand partecipò a uno degli studi sull’LSD condotti a Palo Alto nei primi anni Sessanta. Assieme a Ken Kesey, un’altra cavia di quegli esperimenti, organizzò il Trips Festival che celebrava l’acido; compare nella prima scena del romanzo di Tom Wolfe The Electric Kool-Aid Acid Test, e collaborò con Doug Engelbart a un’epocale presentazione con suoni e luci di nuove tecnologie chiamata La Madre di Tutte le Dimostrazioni. «Quasi tutti gli esponenti della nostra generazione disprezzavano i computer, giudicandoli l’incarnazione del potere centralizzato» osserva Brand a distanza di anni, «ma un piccolo contingente, che in seguito sarebbero stati chiamati “hacker”, accettò i computer e si prefisse di trasformarli in strumenti di liberazione. Quella risultò essere la vera strada maestra verso il futuro.»

Brand ebbe l’idea dello Whole Earth Truck Store, che prese avvio con un camion itinerante carico di strumenti utili e materiale educativo che guidava lui stesso in giro per varie località. Nel 1968 decise di ampliare il raggio d’azione con il «Whole EarthCatalog», la cui prima copertina mostrava la famosa foto della Terra vista dallo spazio con il sottotitolo «accesso agli strumenti». La filosofia alla base dell’operazione era che la tecnologia dovesse essere accessibile a tutti.

Brand scrisse nell’editoriale della prima edizione: «Si sta sviluppando un humus favorevole al potere interiore e personale, il potere dell’individuo di gestire la propria istruzione, trovare la propria ispirazione, forgiare il proprio ambiente e condividere l’avventura con chiunque sia interessato a farlo. Il “Whole Earth Catalog” cerca e promuove gli strumenti che favoriscono questo processo». Seguiva una poesia di Buckminster Fuller che iniziava così: «Vedo Dio negli strumenti e nei meccanismi che funzionano in maniera affidabile…».

da "Steve Jobs" di Walter Isaacson

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